Disciplined Minds: A Critical Look at Salaried Professionals
and the Soul-Battering System that Shapes their Lives

(Rowman & Littlefield, 2000) by Jeff Schmidt

Carta
10 January 2002
volume 4, number 1, pages 54-55
ISSN 1594-0772

 

La macchina Usa del consenso.
Come si fabbricano i «professionals»

Intervista a Jeff Schmidt raccolta da

Stefano Sensi

 

 

«DISCIPLINED MINDS», menti disciplinate.  Un libro che parla con intelligenza della condizione attuale dei «professionals» americani.  Una massa intellettuale che svolge mansioni iper-specializzate ma assai poco gratificanti.  Jeff Schmidt, laureato in fisica alla University of California at Irvine, allievo del Premio Nobel Frederick Reines, con umorismo, ma anche ferreo senso critico analizza il mondo del lavoro «intellettuale» americano.  Schmidt punta il dito su un sistema educativo che, disastroso a livello di scuola secondaria, diventa a livello universitario un formidabile strumento per selezionare menti disciplinate, per produrre intellettuali organici al sistema [Jeff confessa una passione per il nostro Gramsci].

 

Il libro ha un incipit drammatico:  «Questo è un libro rubato».

 

Un libro rubato, perché?

 

Ho preso lo spunto dal famoso libro di Abbie Hoffman «Steal this book», ruba questo libro.  Volevo dimostrare come ci si può riappropriare del proprio tempo, cominciando da quello speso sul lavoro.  Impegnandolo, cioè, in attività realmente creative.  Ho scoperto, amaramente, che non è possible.  Sulla carta, la prestigiosa rivista «Physics Today», di cui sono stato redattore per 19 anni, è paladina di un ambiente di lavoro informale, con orari flessibili.  Ciononostante quando il direttore della rivista ha letto la frase che apre il libro, mi ha licenziato in tronco.  Ho scritto questo libro invece che giocare al solitario o fare il surfing su internet, nel tempo liberato dal lavoro.  Ciò, apparentemente, non è ammissibile.  Uno dei concetti chiave di questo libro è che il sistema controlla minuziosamente gli aspetti politici del lavoro intellettuale.  Ho ora scoperto che il controllo si estende anche al tempo libero o meglio, liberato dal lavoro.

 

Chi sono i «professionals»?

 

La mia definizione è un po differente da quelle ufficiali del ministero del lavoro o delle agenzie di censimento.  Mentre queste puntano sul livello di educazione, io ho focalizzato il mio interesse sulle implicazioni politiche dell’operato dei «professionals».  Sono lavoratori sì con un alto grado di educazione, ma sono soprattutto i professionisti organici al sistema.  Sono medici, avvocati, giornalisti, insegnanti ma anche attori o ispettori di polizia per esempio.  Quelle figure cioè che con le loro decisioni avvallano il sistema perpetuando lo status quo.

 

La percezione comune è che i «professionals», in quanto più istruiti, siano anche più progressisti.

 

È un’ incredibile mistificazione.  In effetti sono molto liberal su tematiche generali ed astratte.  Quando li si tocca nel loro specifico, cioè sulle implicazioni politiche delle loro attività professionali, il discorso cambia.  Faccio l’esempio del medico «di sinistra» sempre pronto a scagliarsi contro l’ingiustizia del sistema durante un cocktail party, ma che molto più raramente vedrai, nel chiuso del suo ambulatorio, mettere seriamente in discussione i propri rapporti gerarchici con pazienti ed infermieri, o il sistema sanitario americano.

 

Un punto molto interessante del tuo libro riguarda l’accesso all’educazione, cardine di quell’«upscale mobility», mobilità verso l’alto, che è il fondamento dell’American Dream.

 

Nel libro paragono il sistema americano ad uno di quei truffatori che fanno il gioco delle tre carte nei mercati popolari.  Ti abbindolano per farti credere che la scelta della carta giusta sia pressoché certa.  Di fatto il numero chiuso all’università opera una selezione fortissima.  Non c’è posto per tutti, al contrario solo pochissimi vengono selezionati: pensa al caso delle facoltà di medicina con un posto ogni 17 mila abitanti.  Una selezione che mira a scegliere i più docili.

 

In che maniera?

 

Attraverso lo sproporzionato use di tests e l’atteggiamento fideistico nei confronti di essi.  Una delle più grosse mistificazioni operata dal sistema è quella di proporli come «asettici» strumenti di selezione dei piu’ preparati.  In realtà sono non solo fortememte «biased», parziali, per classe e genere, ma strutturati in maniera tale da valutare, soprattutto, il grado di potenziale subordinazione.  Gli studenti che passano, o, come preferisco dire, vengono fatti passare, sono infatti quelli che più acriticamente si dimostrano propensi a studiare su libri di quiz invece che sui libri di testo veri.  Si è di fatto creata una situazione paradossale, per cui lo studente, invece che essere incoraggiato ad utilizzare processi logici induttivi e deduttivi, è praticamente indirizzato a memorizzare le risposte esatte dei quiz.

 

Nel libro, cito l’esempio di uno dei miei più brillanti compagni di studi che, caparbiamente, tentò di superare un difficilissimo esame del dottorato di fisica preparandosi sui libri di teoria, rifiutandosi, cioè, di umiliare la propria intelligenza con lo studio delle risposte «precotte» dei quiz.  Fu uno dei pochi a non passare l’esame.

 

Muovi anche una critica alle linee di ricerca nell’università.

 

Si, nonostante che nell’opinione pubblica prevalga il mito delle università come centri in cui si promuove ricerca mossa solo da genuina curiosità scientifica, di fatto il primum movens è il denaro.  La maggior parte dei ricercatori è forzata a cercare fondi statali o privati appiattendo i propri interessi scientifici su quelli che sono gli interessi economici prevalenti.  I ricercatori continuano a vivere nella mistificazione di essere i soli gestori del proprio tempo ed interesse scientifico.  In realtà proprio per questo sistema di finanziamenti che premia la profittabilità delle ricerche, i ricercatori sono fortemente eterodiretti.

 

La commistione di interessi economici e scientifici sembra molto più evidente nel campo delle scienze bio-mediche e fisiche che non in quello umanista, è così?

 

Il condizionamento economico avviene anche nel campo umanista, ma in maniera più sottile.  La chiave in questo caso è la sempre minore offerta di «tenured positions» [le nostre cattedre «permanenti»].  E’ interessante notare come ci sia nell’università americana, sempre più forte, la tendenza a privilegiare «tenured positions» nelle scienze bio-mediche e fisiche, le discipline cioè che generano profitto.  Al contrario, le discipline umanistiche son viste come una costosa e forse inutile appendice, i cui costi sono da ridurre all’osso.  Pullulano dunque gli incarichi a contratto.  Posizioni facilmente ricattabili, in cui il licenziamento può avvenire da un giorno all’altro.

 

In linea, dunque, con il mantra della «new economy», la flessibiltà.  «Temporary workers» anche nel settore educativo.

 

Flessibilità nei confronti del mercato del lavoro, ma una flessibilità mentale, anche.  Alla rovescia però.  Creare, cioè, una manodopera intellettuale dalle forti conoscenze tecniche che non sia tuttavia in grado di percepire le contraddizioni del sistema a dunque incapace di muovere una critica globale al sistema di valori correnti.  Docili intellettuali-tecnici, usa a getta, da impiegarsi al bisogno.  Se paragoni le tecniche di controllo che vengono utilizzate da istituzioni totali come l’esercito e le pratiche educative nell’università, scopri che vi è una forte analogia.  Prendi, per esempio, il caso dell’isolamento.  Gli studenti vengono sottoposti a carichi di lavoro sempre più imponenti.  Ne risentono i contatti con l’esterno, che diventano sempre più labili: meno tempo per frequentare amici e famiglia, meno tempo per la lettura di libri e giornali.

 

Durante il dottorato, per esempio, molte università vietano di lavorare.  Questo divieto ha in effetti un forte connotato politico.  Non viene proibito allo studente di lavorare tout court e gli vengono, infatti, offerti lavori «on campus».  Quelle che vengono proibite sono le attività lavorative «off campus», il contatto, cioè, con il reale mondo del lavoro.